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La cliente aveva acquistato in una Galleria d’arte un’opera di un artista che all’epoca aveva cominciato a farsi strada nel mondo dell’arte contemporanea con un discreto successo, ed era deceduto da poco tempo. La cliente presumeva che con la morte dell’artista, le sue opere avrebbero raggiunto in poco tempo sul mercato quotazioni interessanti, e la previsione fu talmente corretta che in breve, in effetti, raggiunsero valori di mercato impensabili. Fin dall’acquisto la cliente aveva chiesto al gallerista che le aveva venduto l’opera di consegnarle il certificato di autenticità dell’opera che avrebbe dovuto essere rilasciato dall’ente, gestito dagli eredi dell’artista, che si occupava di catalogare sistematicamente le sue opere.
Per chi si occupa di arte “contemporanea” è noto che il valore dell’opera di un artista scomparso è strettamente collegato alla certificazione di autenticità, in mancanza del quale l’opera diviene di fatto incommerciabile e priva di valore economico.
Per anni la cliente aveva insistito con il gallerista per ottenere il certificato, finché, interessatasi direttamente della questione, rivoltasi personalmente all’ente certificatore, scoprì che, nonostante l’opera risultasse firmata sul retro, secondo l’ente essa non era “autentica”, e come tale era priva di valore economico.
A seguito del rifiuto del gallerista di intervenire, valutato il valore che avrebbe avuto l’opera se fosse stata “autentica”, e considerato che la differenza era di parecchie migliaia di Euro, la cliente ci conferì l’incarico di promuovere l’azione giudiziaria chiedendo la risoluzione del contratto d’acquisto dell’opera e il risarcimento del danno subito in termini di mancato guadagno.
Durante il giudizio di primo grado veniva espletata Consulenza Tecnica d’Ufficio, che concludeva nel senso che l’unico parere affidabile per l’attribuzione della paternità dell’opera all’artista fosse quello della dell’ente certificatore in mancanza del quale l’opera, pertanto, doveva essere considerata non autentica. Inoltre, il Consulente del Giudice stimò che l’opera in questione, se fosse stata autentica, avrebbe avuto all’attualità un valore compatibile con la stima fatta fare dalla cliente.
Conseguentemente, il Tribunale di Torino con la sentenza dichiarava il contratto di compravendita risolto ex art. 1453 c.c., per inadempimento del gallerista – essendo l’attribuibilità dell’opera all’artista una delle caratteristiche essenziali promesse dal venditore all’atto di compravendita – con condanna di quest’ultimo alla corresponsione del prezzo corrisposto, e della differenza tra il prezzo d’acquisto e il valore che avrebbe avito l’opera autentica a titolo di risarcimento del danno, oltre spese di CTU e di causa.
Il gallerista proponeva appello per la riforma della sentenza, sostenendo che la firma apposta dall’autore sull’opera fosse l’unico elemento rilevante ai fini dell’attribuzione della sua paternità, trattandosi di un opera (come spesso avviene nell’arte contemporanea) realizzata da artigiani su incarico dell’artista. Il fatto che la firma non fosse stata disconosciuta dall’originaria attrice denotava il fatto che non vi fosse contestazione in merito all’autenticità dell’opera. Viceversa, avrebbe dovuto essere ritenuto irrilevante il parere dell’ente certificatore presumibilmente influenzato da interessi di mercato e proveniente da una parte in conflitto di interessi, parere sul quale, tuttavia, il CTU si era appiattito, senza fornire una motivazione esaustiva. Inoltre chiedeva, in subordine, nella denegata ipotesi di conferma della risoluzione del contratto, di limitare la condanna alla restituzione del prezzo corrisposto e dell’opera e al risarcimento dei soli danni prevedibili.
La Corte d’Appello di Torino, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, condannando l’appellata alla restituzione dell’opera d’arte oggetto della controversia e l’appellante confermando la condanna dell’appellante al risarcimento del danno. La Corte confermava l’accertamento del grave inadempimento, non avendo il venditore fornito alcuna prova circa la genuinità dell’opera, che veniva contestata dall’acquirente. Del pari, dava rilievo alle dichiarazioni del gallerista , rese in sede di interrogatorio, nelle quali affermava di aver assicurato la genuinità dell’opera essendone convinto in buona fede, e alle conclusioni della CTU in merito al valore da attribuire al parere espresso dall’ente certificatore, unico affidabile per attribuire autenticità, in assenza del quale le opere non hanno valore sul mercato.
Il Gallerista avverso la sentenza d’Appello propose ricorso per Cassazione sostenendo due motivi di impugnazione:
La Cassazione, a seguito delle nostre difese, dichiarò inammissibile il primo motivo di ricorso, e infondato il secondo e confermò la sentenza d’Appello con condanna del ricorrente alle spese e onorari del grado di giudizio.
Nel frattempo, poiché il gallerista non voleva pagare gli importi a cui le varie sentenza lo avevano condannato, la cliente ci chiese di intraprendere l’azione esecutiva.
L’unico modo era quello di sottoporre a pignoramento le altre opere presenti nella galleria d’arte facendole valutare da esperti, e chiedendo al Giudice dell’esecuzione di incaricare della vendita all’asta al posto dell’Istituto Vendite Giudiziarie, una casa d’aste organizzata per la vendita di opere d’arte di valore consistente. Ottenuta l’autorizzazione del Giudice, procedemmo in quel senso, e con soddisfazione della cliente riuscimmo a ottenere tutti gli importi dovuti.
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